Sul mancato riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche

26 mar 2015
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Con le sentenze nn.16379 e 16380 la Corte di Cassazione ha risolto il contrasto insorto in tema di stabile convivenza coniugale e riconoscimento (delibabilità) delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, facendo fronte all’ingiustificata inerzia del legislatore.

Il principio di diritto enunciato è il seguente: la convivenza coniugale ultra-triennale, come situazione di ordine pubblico, può essere ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica da parte della Corte d’Appello.

Perché la convivenza coniugale sia un elemento essenziale del matrimonio-rapporto, deve essere stabile, continuata nel tempo (almeno per tre anni) e riconosciuta come tale esteriormente. Solo se così intesa, la convivenza è “fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili, di responsabilità anche genitoriali in presenza dei figli, di aspettative legittime e legittimi affidamenti degli stessi coniugi e dei figli, sia come i singoli sia nelle reciproche relazioni familiari”, e quindi configura una situazione giuridica di ordine pubblico.

L’azionabilità di tale principio è lasciata alla libera disponibilità delle parti, ovvero l’eccezione di contrarietà all’ordine pubblico deve essere sollevata, a pena di decadenza, dal coniuge nella memoria di costituzione in Appello, con l’onere di dimostrare la sussistenza della convivenza coniugale ultra-triennale. Si tratta di un’eccezione in senso stretto, e quindi non può essere sollevata né dal pubblico ministero né d’ufficio dal giudice.

Nessun limite di ordine di pubblico si pone, dunque, nel caso in cui entrambi i coniugi siano favorevoli alla delibazione della sentenza ecclesiastica.

Nella pratica, il decorso triennale della convivenza verrebbe a “sanare” ai fini civili un matrimonio concordatario dichiarato invalido dal giudice canonico, e questo a tutela dell’unità famigliare, o meglio di tutti quei diritti/doveri che nascono in seguito al matrimonio (salva comunque la possibilità per il coniuge, a cui è stata rigettata la delibazione, di presentare ricorso di divorzio).