Le prove nei procedimenti di famiglia

9 feb 2018
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Nei processi in materia di famiglia sono spesso impiegate prove illecite, ovvero che violano altri diritti, in particolare quelli della persona.

Per fare alcuni esempi: sottrazione di scritti riservati come lettere confidenziali o diari, corrispondenza ottenuta con la consultazione della posta elettronica o del telefonino dell’altro, registrazione di conversazioni altrui o ripresa di immagini, relazioni di investigatori privati.

Tutti questi esempi costituiscono prove assunte al di fuori del procedimento, che successivamente diventano mezzi di prova all’interno del procedimento, per cui sorge spontanea una domanda: il giudice può utilizzare per la formazione del proprio convincimento tutto il materiale probatorio acquisito indipendentemente dalla provenienza e dalla modalità di formazione?

Nei processi della crisi familiare, forse più che in altri ambiti, si è resa necessaria una maggiore apertura verso le fonti di prova atipiche, come quelle indicate sopra, e questo per diversi motivi: per la natura primaria e personalissima dei diritti in gioco, per il coinvolgimento di soggetti deboli quali i minori, per la modulazione dei poteri istruttori del giudice e in particolare per il suo potere inquisitorio.

Un ruolo importante, quindi, ce l’ha l’autorità giudiziaria, che deve controllare l’ammissibilità e la rilevanza dei mezzi istruttori: il controllo di ammissibilità consiste in un giudizio di legalità e il controllo di rilevanza implica una valutazione sull’utilità della prova nel giudizio di fatto e ai fini della decisione.

Riguardo al controllo sulla liceità della prova, la giurisprudenza non sempre è concorde in merito all’utilizzo delle prove illecite.

Una parte della giurisprudenza ritiene che il materiale probatorio raccolto illecitamente non sia utilizzabile dal giudice per fondare il suo convincimento, pena la violazione del principio del giusto processo (Cass. 8.11.2016 n.22677).

Altra parte, invece, ridimensiona il principio del giusto processo con il richiamo alla necessità di procedere ad un confronto e ad un bilanciamento tra i diritti fondamentali coinvolti, secondo il criterio della cd. gerarchia mobile (Cass. 5.8.2010 n.18279).

Da ultimo, sulla base del suddetto criterio, il Tribunale di Roma (20.1.2017) ha ammesso come mezzo di prova la videoregistrazione, illecitamente ottenuta (in violazione della legge sulla privacy, perché all’insaputa e dunque senza il consenso dell’interessato), della condotta del padre potenzialmente lesiva dell’interesse del minore (il padre in bagno faceva uso di sostanze stupefacenti), facendo prevalere l’interesse del figlio sul diritto alla riservatezza del padre e disponendo poi per l’affidamento esclusivo alla madre.

L’ammissione della prova illecita in ambito civile non esclude poi che la persona possa essere perseguita in ambito penale. La Corte di Cassazione penale (Cass., sez. V, 2.12.2003 n.46202, Cass., sez. V, 11.2.2003 n.12698), in altri casi, ha condannato il marito ex art.617-bis c.p., perché aveva fatto installare in casa un apparecchio volto a intercettare le telefonate della moglie con terzi, nella situazione di conflittualità generata dalla separazione in atto.

Nel conflitto tra il diritto alla privacy e il diritto di difesa, è dunque possibile che il primo sia sacrificato a favore del secondo e ciò è previsto dallo stesso codice sulla privacy.